lunedì 12 ottobre 2009

Divulgazione scientifica, storia della scienza, tempo

Eschilo
Divulgazione scientifica, storia della scienza, tempo

Eschilo nacque intorno al 525 a.C. nel demo attico di Eleusi, dove avevano sede i più famosi misteri del mondo greco: non è da escludere che questa circostanza abbia contribuito a rinforzare il senso di una religiosità profonda quanto problematica, di cui è pervasa la sua opera. Era figlio di Euforione, di nobile famiglia - così informa la Vita anteposta a un'edizione tardoantica dei suoi drammi -;e comincio in giovane età a comporre per il teatro. Dalla medesima fonte apprendiamo che fin dai suoi esordi egli si segnalò, oltre che per l'altezza dell'ispirazione, anche per la grandiosità dell'apparato scenico e il fasto dei costumi, e per le cure rivolte alla coreografia e all'interpretazione degli attori; ed egli stesso era solito recitare nei suoi drammi.
Prese parte alle guerre contro l'invasione persiana nel 490 e nel 480. L'epigramma inciso sulla sua tomba, che la tradizione vuole composto da lui stesso, celebrava il valore di Eschilo nella battaglia di Maratona, dove cadde suo fratello Cinegiro; ed è probabile che egli fosse presente pure a Salamina. Nell'epitafio non si fa parola della sua produzione poetica: un fatto singolare per i moderni, ma che esprime quell'orgogliosa consapevolezza civica della generazione dei Maratonomachi, in cui s'individua un altro contrassegno dell'ispirazione eschilea.
La prima vittoria di Eschilo nei concorsi tragici risale al 484, con un'opera a noi ignota. Qualche anno dopo, invitato in Sicilia da Gerone tiranno di Siracusa, compose una tragedia intitolata Etnee ,per celebrare la fondazione della città di Enna, avvenuta nel 476: questo dramma, oggi perduto, costituisce un caso rarissimo di trapianto del teatro fuori di Atene in età arcaica. Altri frequenti successi egli ottenne nei concorsi ateniesi: secondo le fonti, tredici in vita e quindici postumi, grazie alla possibilità di rappresentare sue tragedie anche dopo la morte, che gli Ateniesi vollero riservare ad Eschilo in segno d'onore. L'ultima vittoria durante la sua vita toccò all' Orestea nel 458.
In seguito Eschilo ritornò in Sicilia: da notizie più o meno attendibili pare che egli fosse risentito, per ragioni che non è dato di capire, contro il pubblico ateniese. Morì a Gela nel 456, intorno ai settant'anni: una bizzarra storia, probabilmente derivata dagli scherzi dei poeti comici sull'impenetrabile elevatezza della sua dizione, pretende che causa della sua morte fosse una tartaruga, che un'aquila avrebbe lasciato piombare dall'alto sul suo cranio calvo, scambiandolo per una roccia su cui spezzare la corazza della preda.
Una scelta formatasi nella tarda età imperiale, fra il III e il IV secolo d.C., ha conservato sette tragedie di Eschilo. Queste tuttavia rappresentano solo una minima parte della sua produzione. I dati delle fonti non sono univoci; ma indirizzano verso un totale che si aggira intorno alle novanta opere, fra tragedie e drammi satireschi, e che appare attendibile anche in rapporto alle annuali scadenze fisse della drammaturgia ateniese. Di quest'imponente complesso rimangono la massima parte dei titoli e qualche centinaio di brevi frammenti nella tradizione indiretta; ma ad essi sono da aggiungere recenti acquisizioni di testi papiracei. Per lo più si tratta di residui estremamente frammentari; ma tra questi ricorrono più estesi passi di tragedie famose nell'antichità, tra cui particolarmente la Niobe e i Mirmidoni . Inoltre, questi reperti hanno finalmente concesso una parziale verifica dell'opinione corrente nell'antichità, secondo la quale Eschilo eccelleva nella composizione di drammi satireschi. L'ilare freschezza e l'estrosa fantasia che si sprigionano dai resti dei Pescatori con la rete e degli Spettatori ai Giochi Istmici confermano tale giudizio, pur suscitando il rammarico che la nostra conoscenza sia ridotta a questi spezzoni.
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venerdì 9 ottobre 2009

Divulgazione scientifica, storia della scienza, tempo, antichità classiche

Esiodo
Divulgazione scientifica, storia della scienza, tempo, antichità classiche

Già nell'antichità si dubitava se Omero fosse più antico di Esiodo, o viceversa; ed Erodoto risolse il problema considerandoli contemporanei. La critica moderna propende a ritenere che Esiodo sia posteriore ai poemi omerici, anche se alcuni studiosi preferiscono inserirlo tra Iliade e Odissea , e recentemente si è avanzata l'ipotesi di anteporlo alla stesura conclusiva di entrambe le opere. Resta comunque accertata una fondamentale diversità tra le due sfere poetiche, nonostante che metro, lingua e stile si lascino ricondurre a una matrice sostanzialmente analoga. Ma con Esiodo la figura del poeta s'introduce perentoriamente nell'opera, sia perché egli riferisce esperienze vissute nel concreto della propria biografia, sia perché esprime concetti permeati di una personale meditazione. Questa dimensione individuale e soggettiva sembra rivelare una fase successiva rispetto all'obiettività assoluta dei poemi omerici; e peraltro essa andrà interpretata soprattutto alla luce di una differente situazione ambientale e culturale, e di una diversa concezione della poesia stessa.
Esiodo vive in Beozia, una regione appartata del continente ellenico ed estranea alle rotte marinare di comunicazione, ma dotata di un sostrato fertile di antichissime tradizioni. La sua attività poetica appare quella di un isolato, sebbene al corrente della tradizione rapsodica; e quest'isolamento poté contribuire al proposito di dare nuovi contenuti alla forma epica, in cui trovassero voce sia i valori autoctoni, sia il confronto con la realtà contemporanea, sia soprattutto un'esperienza artistica libera dal condizionamenti della maniera eroica che fioriva nell'ambiente della Ionia.
Accade così che il suo progetto artistico non sia rivolto alla rievocazione del passato e non cerchi la propria materia nella gloria delle armi o nell'avventura esotica. Esiodo individua il suo interesse nel presente e nella concretezza del quotidiano; e anche quando nella Teogonia si rivolge al mito, egli lo organizza secondo una prospettiva che si risolve nell'attualità del regno di Zeus. Come conseguenza di queste scelte Esiodo tende a confrontarsi personalmente con il proprio tema, rivendicando con energia una nuova funzione e una diretta responsabilità all'attività del poeta.
Al tempo stesso, affiorano in lui le tracce di antichissime tradizioni, addirittura estranee al mondo greco; e ci si può chiedere se ne avesse conoscenza grazie all'origine della sua famiglia, venuta in Grecia dall'Asia Minore, o se le rinvenisse nel sostrato beotico come traccia di una preistorica comunanza culturale con il mondo orientate. Recenti scoperte hanno infatti accertato che la successione Urano-Crono-Zeus, che costituisce l'ossatura del sistema esposto nella Teogonia , riproduce un'analoga serie che compare in testi ugaritici e ittiti; e anche l'impostazione didascalica delle Opere trova corrispondenza in testi sapienziali di ambiente sumerico, accadico e persino egiziano. Non occorre dare a queste coincidenze il valore di una derivazione più o meno diretta; ma esse vanno interpretate come indizio della presenza in Esiodo di motivi culturali indipendenti dalla tradizione propriamente ellenica.
Tutto ciò conferisce all'opera esiodea un tono particolare, in cui la forma epica costituisce soltanto la superficie espressiva: tanto che il problema di una cronologia relativa fra i poemi omerici ed Esiodo ha un senso solo per quanto attiene ai fenomeni d'influenza e derivazione nella lingua e nello stile. Ma il nucleo profondo della poesia di Esiodo appare sostanzialmente estraneo alla mentalità che si esprime nei poemi omerici. Esso trova radici in una dimensione affatto autonoma, dove Esiodo scopre le ragioni di un rapporto nuovo fra il poeta e la sua opera, sia nelle finalità pratiche, sia nell'intrinseca misura etica.
La maniera narrativa propria all'epos eroico sembra trovare un punto d'incontro con l'esperienza personale, che Esiodo si propone d'introdurre nello stile rapsodico, nelle parti dei suoi poemi dove egli apre uno spazio al racconto autobiografico. È questo un sostanziale fattore di differenza rispetto al soggettivismo dei lirici, che punterà sull'espressione del sentimento piuttosto che sull'esposizione di eventi e situazioni. Risulta cosi possibile ricavare dalle stesse opere esiodee una serie di notizie sparse, che offrono certi connotati fondamentali della sua esistenza e dell'ambiente in cui essa si svolse, cosicché Esiodo risulta il primo protagonista della letteratura europea di cui sia nota la figura storica.
Il padre di Esiodo era nativo della città eolica di Cuma in Asia Minore, e qui aveva esercitato il commercio per mare. Ma il suo proposito di arricchire con quest'attività era fallito; e per sfuggire all'indigenza egli si era trasferito ad Ascra, nel profondo cuore della Beozia ai piedi del monte Elicona. Qui l'unico sostentamento possibile era dato dall'agricoltura e dalla pastorizia; e il trauma della decadenza sociale e dell'abbandono della vivace città marinara risuona nella tetra immagine che Esiodo da di Ascra, "orribile d'inverno, penosa d'estate e mai gradevole". Ma si può pensare che, più in generale, l'intonazione amara e pessimistica di tanta parte della poesia esiodea trovi le sue radici profonde nello sradicamento a cui la povertà aveva costretto la sua famiglia.
Comunque il padre era riuscito a conquistare nella nuova sede una discreta agiatezza, se fu in grado di suddividere un'eredità tra Esiodo e il fratello Perse. La figura di costui rappresenta una sorta di filo conduttore nelle Opere , che appaiono concepite come una serie di ammaestramenti per indirizzarlo a una vita onesta e operosa. Perse infatti aveva dilapidato la propria parte, e ora tentava di corrompere i "re" che fungevano da giudici, per farsi assegnare anche la porzione d'eredità spettante a Esiodo. I dettagli dell'episodio non si lasciano ricostruire con esattezza dagli ellittici riferimenti; ma il fatto che Esiodo proponga la propria esperienza al fratello come viatico per evitare la miseria fa supporre che egli godesse di una certa tranquillità economica, come appare anche dagli accenni al personale e al bestiame della sua fattoria.
Come s'inquadrasse in questa condizione la sua attività poetica, non risulta chiaro. Nel proemio della Teogonia Esiodo rappresenta la propria vocazione artistica con un suggestivo episodio. Egli narra come un giorno, mentre pascolava sull'Elicona, gli siano apparse le Muse a insegnargli un bel canto, testimone di verità, donandogli come pegno un ramo d'alloro. Si può pensare che il richiamo alla pastorizia intendesse ribadire il duplice statuto di Esiodo come agricoltore e come vate, per la cui bocca stessa parlano le Muse. Con questo tratto egli sembra rivendicare al proprio canto un'autorità più alta rispetto ai rapsodi professionali; e occorre rifiutare l'ipotesi alternativa che egli si debba considerare come una sorta di dilettante, la quale rischia di introdurre l'anacronistica concezione di una letteratura intesa come otium.
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giovedì 8 ottobre 2009

Divulgazione scientifica: Biografia di Omero

Omero e i poemi
Divulgazione scientifica: Storia della scienza, Tempo

La figura di Omero come autore dell'Iliade e dell'Odissea non è certa. Probabilmente i due poemi furono concepiti e tramandati a memoria e Giambattista Vico sostenne l'inesistenza di Omero nella seconda edizione dei Principi di scienza nuova intorno alla comune natura delle nazioni (1730), il cui terzo libro è intitolato Discoverta del vero Omero.
L'aedo omerico, per essere considerato tale, deve cantare davanti a un pubblico di ascoltatori. Una situazione diversa sarebbe inconcepibile: quale intermediario potrebbe mai consentire all'aedo di sfuggire al contatto diretto con il suo uditorio? Ecco perché, per le sue improvvisazioni, egli deve aver conseguito una preparazione specifica: un lungo periodo di familiarizzazione, piuttosto che di insegnamento sistematico, che gli dia la padronanza delle formule tradizionali, in modo da saperle "combinare", "maneggiare", "sostituire" senza sforzo. Il suo segreto consiste proprio in questa abilità: è per essa che l'aedo si distingue da un Virgilio, per il quale le formule non costituiscono più una condizione necessaria del discorso, ma piuttosto una scelta di ordine stilistico. Già per gli antichi, come per noi, la letteratura greca ha inizio con l' Iliade e l' Odissea . La perentoria realtà di due capolavori tanto compiuti e perfetti ha finito per seppellire in un'oscura preistoria il percorso che, dai primi tentativi di dare espressione poetica agli eventi e all'interiorità dell'uomo, condusse alla loro eccelsa qualità artistica. Il ricordo delle primitive esperienze di poesia andò presto perduto: esse erano tramandare per via orale e mnemonica, e subirono una selezione che salvò soltanto i due grandi poemi che per intrinseco pregio e complessità riassumevano in sé tutto ciò che le aveva precedute. In effetti i poemi che si conviene di chiamare "omerici" rappresentano il frutto maturo di quella scoperta della parola poetica come valore autonomo e assoluto, che fino dai primordi della civiltà ellenica ne rappresenta un contrassegno essenziale. Altri popoli dell'antichità ebbero una letteratura come simbolo mitico del mondo e dei suoi fenomeni, memoria storica del passato, momento del rituale religioso, espressione del sentimento: ma fu solo la Grecia che individuò nella poesia la natura specifica dell'esperienza artistica. Quando, come e perché sia avvenuta questa fondamentale rivelazione, non è dato di riconoscere. Nei poemi è esposto in forma narrativa una sorta di sapere enciclopedico che comprende la totalità dell'esperienza contemporanea, in modo da offrire un riferimento collaudato per ogni situazione della vita. A questo programma corrispondono la dettagliata attenzione per i comportamenti individuali e collettivi, quali i riti, i discorsi, le riunioni pubbliche e private, i giochi, le fasi dell'armamento e dello schieramento, i modi del combattimento; inoltre l'esposizione delle varie tecniche attinenti alla lavorazione dei metalli, alla coltivazione della terra, all'allevamento del bestiame, alla navigazione; e infine i riferimenti alle conoscenze geografiche e cosmologiche, e la stressa memoria di un passato che iniziava ad assumere i connotati di storia. Ma qual'era la destinazione che apparteneva all'attività poetica? Il suo luogo deputato è la corte, e l'occasione è il banchetto, la sua forma è il canto accompagnato dalla lira. La poesia è una componente della gioia conviviale, e la sua eventuale finalità pratica risulta semmai un fattore secondario. In questa fondamentale certezza circa il valore e la funzione della poesia risiede il significato essenziale che dai poemi omerici si trasmise alla cultura greca, e che conferì ad essa uno dei tratti che furono poi decisivi per la civiltà europea. Al tempo stesso il raggiungimento di una coscienza artistica costituisce l'elemento più importante che si ricava intorno alla loro preistoria. Il resto è avvolto nel buio, come oscure sono le circostanze storiche dell'epoca in cui i due poemi apparvero. Secondo alcuni i poemi furono redatti negli ultimi decenni dell'VIII secolo a.C. (Del Corno), secondo fonti letterarie tarde sarebbe stato il tiranno ateniese Pisistrato, nel VI sec. a.C., a curare la prima fissazione per iscritto dei poemi omerici. Essi tuttavia sono ambientati nell'epoca della civiltà micenea, che si era conclusa da quasi mezzo millennio. Alla fine dell'età micenea c'era stata l'invasione dei Dori in Grecia, che aveva provocato un ritorno a condizioni di vita primitive, larghi spostamenti di popolazioni e tra l'altro anche mutamenti nelle tecniche; era ciò che gli storici chiamano "medioevo ellenico".
Divulgazione scientifica: Storia della scienza, Tempo

lunedì 5 ottobre 2009

Divulgazione scientifica, Le due imprese di Pigafetta

Le due imprese di Pigafetta

Divulgazione scientifica, storia della scienza, misure scientifiche, tempo

La seconda e maggiore impresa di Pigafetta

Antonio si diede un piano di lavoro lungo due direttrici. Da una parte redigere, su richiesta di Carlo V, a partire dai quattro diari di bordo nonché dalle sue note, un resoconto completo e dettagliato della spedizione. Si trattava non solo di aderire alla richiesta del sovrano ma anche di salvare la gloria del portoghese Magellano a fronte di una sorta di usurpazione che tentava lo spagnolo EI Cano o delle calunnie che propalava l'ammutinato Merquista. Il vicentino sentiva questo come un suo preciso dovere, dal momento che era stato proprio Carlo V, su raccomandazione del nunzio apostolico in Spagna il cardinale F. Chierici, vicentino anche lui, a designare Pigafetta tra gli ufficiali dell'equipaggio di Magellano; dopodiché s'era accattivata la simpatia dell'ammiraglio ed era divenuto segretario nonché il consigliere ascoltato. Non era tanto riconoscenza che Pigafetta sentiva per Magellano, quanto ammirazione, nel senso stretto della parola, per l'opera sua che il vicentino giudicava meravigliosa, ancor più di quella che Dante attribuisce a Ulisse.
L'altra direttrice di lavoro, lo sforzo di capire quell'anomalia del tempo, era più complessa e sfuggente; malgrado ciò essa era addirittura più urgente perché, sempre su richiesta di Carlo, doveva produrre un risultato in capo a qualche settimana, in occasione del grande simposio in onore della spedizione che l'imperatore aveva indetto nel palazzo di Valladolid per l'8 dicembre, il giorno di Maria, alla presenza dei grandi e dei sapienti di Spagna. Carlo desiderava che fosse il tenente Pigafetta ad illustrare l'enigma del giorno perduto; e a scioglierlo agli occhi del mondo cristiano.
Antonio aveva trentadue anni; da dieci era entrato nell'ordine dei Cavalieri di Rodi e il lavoro con il libro, il sestante o la spada certo non lo spaventava. Tuttavia si smarriva davanti al compito di risolvere quel rompicapo che, aveva motivo di credere, non riguardava il computo ma ciò che veniva computato, ossia il tempo in quanto tempo perduto.
Angosciato dalla sensazione di essersi cacciato da solo in una trappola, smise dopo qualche giorno di occuparsi del rendiconto del viaggio di Magellano intorno al mondo per dedicarsi interamente alla questione del tempo perduto.
Sprofondò nei libri stampati e subito dopo nei manoscritti ingombranti e polverosi. Cominciò con un'edizione completa della Summa di Tommaso d'Aquino sembrandogli quella la lettura più agevole, per via della familiarità che aveva acquisito con l'autore grazie ai vari breviari della Summa dei quali s'era occupato nel corso dei suoi studi giovanili.
Dopo due settimane di lettura commentata, era più o meno al punto di partenza dal momento che l'intimo legame che l'Aquinate istituiva tra Dio e il tempo comportava che ogni anomalia di quest'ultimo si risolvesse in un difetto di Dio e questo, il vicentino lo sapeva bene, non era solo eresia, era addirittura blasfemia.
Antonio si risolse allora a ricorrere all'altra grande tradizione teologica, a quella che aveva dominato l'Europa cristiana prima dell'arrivo dei Mori, tradizione che si collegava alla cultura greca antica tramite gli insegnamenti del filosofo pagano Plotino. II compito era qui facilitato dall'esistenza di numerose traduzioni latine dei dialoghi platonici, traduzioni che avevano dato luogo a libri stampati in numerose città italiane, segnatamente Firenze, dov'era in corso una rinascita della civiltà greca classica, grazie a migliaia di profughi, spesso eruditi come Gemisto, profughi che, fuggendo l'invasione ottomana, avevano trovato rifugio nella penisola.
Pigafetta studiò e ristudiò le Enneadi di Plotino. In particolare trascrisse e commentò la Terza enneade, dove la questione del tempo si apre con una critica della posizione aristotelica che identifica il tempo con la sua misura e si conclude con una definizione del tempo come movimento dell'anima. Gli sembrò che negli scritti di Plotino risuonasse la parola splendida di Platone. Si mise a leggere Platone tutto d'un fiato, per una decina di giorni. Aveva maturato un giudizio secondo il quale gli unici dialoghi, pertinenti il suo problema, fossero il Timeo , il Teeteto e il Parmenide . Quest'ultimo non fu di grande aiuto perché, dopo aver introdotta la questione, la lasciava irrisolta; quanto ai primi due che collegavano strettamente il tempo all'universo ponevano Pigafetta dinanzi allo stesso tipo di immane ostacolo concettuale in cui s'era imbattuto nella lettura della Summa .
Scoraggiato, il vicentino smise di frequentare la biblioteca e si recò a Siviglia dal nunzio apostolico in Spagna, suo concittadino e amico, per un consiglio. L'uomo di Chiesa lo sollecitò a perseverare nell'impresa in modo da non deludere l'imperatore; gli suggerì di leggere Agostino, anzi, lo rimproverò per aver dato una sorta di preferenza alla filosofia pagana; infine gli propose di incontrare l'astronomo Ruy Faleiro che risiedeva proprio a Cordoba ed era certo in grado di aiutarlo. Per la verità il nunzio non omise di mettere in guardia il tenente sulle opinioni e la personalità dell'astronomo che, secondo le affermazioni della diplomazia pontificia, si nascondeva sotto falso nome: si trattava di un certo Gian Battista Amici, italiano da Cosenza, che aveva studiato astronomia a Padova e diritto canonico a Ferrara e che avendo ucciso in un duello un marito, potente quanto distratto, per amore della giovane moglie, si era rifugiato ormai da più di dieci anni in Andalusia per fuggire all'accusa di adulterio e omicidio. Quel che sembrava preoccupare di più il nunzio, suddito della serenissima per nascita e uomo di mondo, non era quel celarsi sotto le vesti di Faleiro o la condotta opinabile del cosentino, bensì il fatto che quest'ultimo fosse l'autore di un libro di astronomia stampato a Venezia nel 1518 dal titolo De Motibus Corporum iuxta Principia Peripatetica , testo che il nunzio aveva letto e che anzi aveva proprio lì, alla nunziatura, sottomano, ma sul quale pendeva da alcuni mesi un procedimento del Santo Uffizio per eresia. Ad ogni buon conto il nunzio aveva prestato a Pigafetta il libro di Amici raccomandandosi di non permettere la lettura a nessun altro, secondo le disposizioni in uso nel caso di scritti sottoposti a procedimento, ma insistette altresì perché il vicentino lo studiasse prima di incontrare l'astronomo, in modo da essere preparato a riconoscere le fallacie di eventuali ragionamenti ereticali.
Il giorno stesso dell'incontro con il nunzio, Pigafetta riuscì a trovare un'edizione italiana delle Confessioni di Agostino, presso una piccola e lurida tipografia, gestita da un genovese, che si trovava nella medesima piazza dove, solenne e mostruosa, si ergeva la Casa de la Contrataciòn, emblema dell'Impero sulle lontane Americhe. Lesse tutta la notte, prima Agostino d'Ippona e poi Gian Battista Amici da Cosenza; la mattina successiva, sulla carrozza che lo riportava a Cordoba, concluse che in Agostino c'erano due concetti di tempo: uno di origine platonica, che lega il tempo all'universo e quindi al Demiurgo o, se si vuole, a Dio; l'altro, più intrigante e sfuggente, che lo fa risalire ai moti di coscienza, cioè all'introspezione o, se si vuole, all'anima. E tuttavia né l'uno né l'altro facevano al caso suo, il primo per le considerazioni esposte, il secondo perché il tempo che era in questione per Pigafetta non era quello soggettivo dell'introspezione individuale, ma quello obiettivo stabilito dalla misura.
Quanto ad Amici trovò che la sua teoria delle orbite celesti somigliava in più punti a quella illustrata da Fracastoro da Verona nel libro Homocentrica , stampato a Venezia nel 1518, libro che Pigafetta conosceva bene. Entrambi gli astronomi gettavano alle ortiche gli eccentrici e gli epicicli di Tolomeo, per tornare alle sfere concentriche di Eudosso e Aristotele. Ma la descrizione di Amici non sempre risultava più semplice di quella di Fracastoro, che, a vero dire, semplice proprio non era. La differenza più significativa fra il cielo di Fracastoro e quello di Amici gli sembrò consistere nel minor numero di sfere adoperate dal cosentino rispetto al veronese e, soprattutto, in quel movimento lento dell'ottava sfera che Amici chiamava delicatamente titubatio e che invece Fracastoro ignorava del tutto. Alla fine gli parve che il libro del cosentino fosse sì un po' pedante, ma di certo per nulla fallace e meno che mai eretico. Una volta tornato a Cordoba il vicentino cercò un abboccamento con Faleiro alias Amici; in capo a due giorni ottenne l'incontro.
La casa dell'astronomo sorgeva ben fuori città, sulla prima collina lungo al strada che porta a Toledo. Era una specie di torre militare rialzata, che serviva all'astronomo come osservatorio. Da lassù Cordoba appariva alta e sola, perduta tra le rupi. L'astronomo viveva solo o meglio con un cane, un possente pastore dei Pirenei ancora cucciolo, mantello fulvo, occhi marroni come castagne, che lo seguiva tutto il tempo.
Era un vecchio minuto, completamente calvo, dal viso olivastro, i denti interi e bianchi, gli occhi chiari e un po' folli; se ne stava avvolto dalla testa ai piedi in un pastrano di velluto rosso senza colletto, il quale lasciava comunque intravedere il petto villoso e bianco; si intuiva che, un tempo, era stato bello. Ascoltò in silenzio il racconto dei fatti e le osservazioni di Pigafetta senza interromperlo per oltre un'ora. Solo di tanto in tanto tradiva la sua emozione scoppiando in brevi risate irrefrenabili, che gli contraevano l'intero volto. Dapprincipio la cosa aveva non poco imbarazzato Pigafetta, giacché le risate si innescavano senza alcuna connessione col racconto; poi il vicentino si tranquillizzò, ricordando la descrizione che Teofrasto aveva dato del carattere isterico, nel quale la propensione ad accompagnare con un segno di piacere l'atto del comprendere nel suo farsi provoca la coazione a ridere d'ogni risultato conseguito dall'intelligenza.
Dopo che Pigafetta ebbe terminato di esporre i suoi ragionamenti, i due uomini e il cane rimasero in silenzio, a lungo, nella grande sala della torre, come a riflettere su quell'evento immane e leggero al tempo stesso, un evento che in qualche maniera li legava tra di loro e con l'universo. Poi l'astronomo, in un castigliano ricco di inflessioni italiane, affermò che l'unico testo che potesse essere utile, per il compito che Pigafetta s'era assunto, era il IV Libro della Fisica di Aristotele, posseduto dalla grande biblioteca di Cordoba, sia pure nella forma di manoscritto arabo. Avvertì quindi che in quanto stava per dire non c'era lo scioglimento dell'enigma proposto ma semmai una sua duplicazione. Egli intuiva tuttavia, senza riuscire ad argomentare, come il secondo enigma fosse in grado di illuminare il primo.
Dopo tale premessa l'astronomo dichiarò che, a suo parere, se la spedizione di Magellano fosse stata armata da Manuel re di Portogallo anziché da Carlo re di Spagna, il giro del mondo si sarebbe svolto con la prua verso Oriente: al ritorno in Europa i sopravvissuti avrebbero constatato non già di aver perso un giorno, bensì di averlo guadagnato. Così disse l'astronomo e su questa questione si tacque per il resto dell'incontro, malgrado il tentativo del vicentino, al quale quelle parola erano risultate piuttosto oscure, di avere chiarimenti.
Nei giorni successivi Pigafetta, che pur parlava e scriveva in arabo, iniziò la lettura della Fisica facendosi aiutare da un traduttore invitato da Siviglia a stretto giro di carrozza, ancora una volta grazie alla generosità del nunzio. Il traduttore era un ebreo convertito, originario del Marocco, che conosceva perfettamente l'arabo classico e lo aveva insegnato ai gesuiti della Casa di Salamanca, ma poi, sospettato dai suoi stessi allievi di essere un marrano, aveva perso il posto ed era a malapena riuscito a sottrarsi, almeno per il momento, alla Santa Inquisizione unicamente in virtù della protezione di cui godeva presso la nunziatura in Spagna.
La prosa di Aristotele, lungi dall'essere sciatta, non aveva tuttavia le armonie di quella platonica; possedeva piuttosto lo stile che viene dalla sobrietà, dall'abitudine a scrivere note essenziali, ossia redatte col numero minimo di parole, brevi e complete come appunti da sviluppare poi nella conversazione orale.
Pigafetta riassumeva su un foglio, in una sua personalissima lingua veneta intrisa di francesismi, quanto l'ebreo veniva leggendo ad alta voce, ora in spagnolo ora direttamente in arabo, secondo richiesta. Gli riusciva difficile concentrarsi sul testo per molte ore. Mancava ormai solo una settimana all'appuntamento con l'imperatore nel palazzo di Valladolid e non v'era alcun progresso né nella redazione del resoconto del viaggio né, e questo era più grave, nella soluzione dell'enigma. Aveva studiato per tre volte, proposizione per proposizione, il quarto Libro e si accingeva ora a chiederne all'ebreo la rilettura integrale.
Ripensava spesso, non badando più alla voce del traduttore, alle affermazioni sibilline di Faleiro. La prima parte del discorso dell'astronomo, quella che immagina verso Oriente un viaggio intorno al mondo organizzato da Manuel I re del Portogallo, stava solo a ricordare l'esistenza di un trattato fra Spagna e Portogallo, il trattato di Tordesillas del 1494, che assegnava - sulla scorta di una Bolla Pontificia emanata nel 1493 da papa Alessandro VI il Borgia - alla Spagna tutte le nuove terre non cristiane a partire da duecentosettanta miglia ad ovest del meridiano dell'arcipelago delle Azzorre e al Portogallo tutte quelle ad est. Di certo, pensava Antonio, se i portoghesi decidessero di circumnavigare il globo andrebbero controsole; ma perché avrebbero dovuto al ritorno, computando le albe e i tramonti da bordo, ritrovarsi con due giorni in più rispetto agli spagnoli che avevano navigato nella direzione del Sole, questo, ecco, non solo non era chiaro ma gli sembrava più che mai oscuro.
L'ebreo aveva ripreso per la quarta volta a tradurre ad alta voce il quarto libro della Fisica . Le frasi asciutte e turgide di significati riempivano la stanzetta, fredda e disadorna, messa a disposizione di Pigafetta dal sovraintendente la Grande Biblioteca di Cordoba. «Noi percepiamo il tempo e il movimento insieme: perché anche quando siamo nel buio, se il nostro corpo è in quiete, se un movimento, un pensiero ha luogo nella nostra testa noi riteniamo che sia trascorso del tempo; non solo questo, ma viceversa quando pensiamo che sia trascorso del tempo, vuol dire che abbiamo percepito qualche movimento. Così il tempo deve essere o il movimento o qualcosa che appartiene al movimento ... Noi apprendiamo il tempo solo quando percepiamo il movimento, e lo marchiamo col "prima" e col "dopo"; e solo quando percepiamo il "prima" e il "dopo" nel movimento diciamo che è trascorso del tempo».
«Perché il tempo è proprio questo: la misura del movimento secondo il "prima" e il "dopo"». Pigafetta aveva appena finito di trascrivere, per la quarta volta, questa definizione aristotelica che d'improvviso la frase oscura di Faleiro divenne solare. Pensò dapprima a una caravella spagnola che potesse viaggiare per terra e per mare muovendo lungo un parallelo da San Lucar a San Lucar verso Occidente, insieme al Sole e alla sua stessa velocità: i marinai a bordo osservando il Sole sempre alla medesima altezza sull'orizzonte dovrebbero concludere che il tempo non scorre, visto che il Sole è fermo. Poi, stupito lui stesso dalla tagliente evidenza della considerazione, si figurò una caravella portoghese che compia il periplo navigando verso Oriente lungo un parallelo da Oporto a Oporto e immaginò altresì che la velocità della caravella fosse sempre uguale ma di direzione contraria a quella del Sole: I marinai avrebbero constatato al ritorno che per due volte il Sole era passato, culminando a mezzodì, sopra le loro teste.
Una grande calma lo prese, come se avesse poggiato i piedi sopra una verità cosmica; o, forse, come se d'improvviso si fosse liberato in una sola volta di mille e un pregiudizio. Congedato e ringraziato l'ebreo si mise a preparare l'incontro con l'imperatore e i sapienti di Spagna. La traccia del discorso che avrebbe tenuto si delineava netta. Il tempo come misura del movimento permetteva di sciogliere l'enigma del giorno perduto senza dover scomodare Dio o l'universo. I sopravvissuti della spedizione di Magellano avevano computato i giorni rispetto al loro movimento di circumnavigazione; poiché avevano compiuto un giro del mondo nella stessa direzione del Sole, quest'ultimo era passato sulle loro teste una volta in meno rispetto a coloro che erano rimasti in Spagna, senza muoversi. In fondo, a ben vedere, il giorno perduto non era una misteriosa proprietà del tempo, ma una qualità dello spazio terrestre, un evidente segno della simmetria sferica della Terra e della rotazione del Sole attorno alla Terra.
Quest'ultima considerazione suggerì a Pigafetta un modo geometrico, e particolarmente intuitivo, di ricostruire il fenomeno del giorno perduto per i convitati di Carlo. In effetti, pensò il vicentino, si tratta di comporre due rotazioni, quella del Sole e quella della caravella, facendo la differenza fra le due nel caso della circumnavigazione a Occidente e la somma per quella a Oriente. Il fenomeno può quindi essere rappresentato da un uomo che ruoti su se stesso, in senso orario per esempio, e al contempo percorra il bordo di un grande tavolo circolare, una volta in senso orario, l'altra in senso antiorario.
Nel palazzo reale di Valladolid, la sera dell'8 dicembre 1522, giorno di Maria, v'era nella sala da pranzo addobbata con arazzi sfarzosi un grande tavolo circolare d'ebano, con il bordo di argento brunito, il tavolo del convito. Quella sera Pigafetta per due volte ruotò su se stesso mentre girava intorno al tavolo, una volta in modo levogiro, l'altra destrogiro.
Così Pigafetta portò a termine la sua seconda e più grande impresa, con grande soddisfazione del re e molta frustrazione dei sapienti di Spagna.
Divulgazione scientifica, storia della scienza, misure scientifiche, tempo

sabato 3 ottobre 2009

Divulgazione scientifica, Le due imprese di Pigafetta

Le due imprese di Pigafetta
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Prima impresa

La mattina del 9 luglio del 1522 la Victoria gettò l'ancora nella piccola baia della costa orientale di Sao Miguel, la più meridionale delle isole degli Avvoltoi, possedimento portoghese certo ma pur sempre cristiano. Subito i marinai sbarcarono presso il villaggio accoccolato sul promontorio a sud della baia. Scesero a terra in dodici, i due dell'equipaggio, giacché sulla Victoria si trovavano in tutto diciotto uomini, compresi il tenente, il vicentino Antonio Pigafetta e il capitano, lo spagnolo El Cano. Erano i sopravvissuti al giro del mondo di Magellano, cominciato oltre tre anni prima da San Lucar con cinque navi e duecentosessantacinque uomini di equipaggio. Quella mattina, nella piccola baia delle Azzorre, i diciotto naviganti ripresero contatto con la civiltà europea dopo oltre tre anni di navigazione verso Occidente.
Se erano sbarcati in dodici - sei portoghesi e sei italiani e con due scialuppe, non fu certo soltanto per assicurare i rifornimenti d'acqua e di viveri, ma piuttosto a causa della nostalgia furiosa che si era impadronita ormai da mesi dell'equipaggio. I quattro marinai rimasti a bordo erano tutti spagnoli; il capitano aveva loro proibito di lasciare la nave per non suscitare il sospetto delle autorità portoghesi del villaggio.
Verso mezzogiorno Pigafetta, osservando le scialuppe cariche aprirsi un varco verso la nave al ritmo ben cadenzato dei remi tra le onde lunghe e alte dell'oceano Atlantico, non riuscì a trattenere uno smisurato orgoglio nazionale riflettendo sulla circostanza che gli spagnoli, centosettanta alla partenza da San Lucar, s'erano ridotti a quattro, i portoghesi da sessanta a un decimo, mentre gli italiani s'erano appena dimezzati.
Così rifletteva pigramente Pigafetta lasciandosi cullare dal rollio della nave, quasi volesse già abbandonarsi al meritato riposo che aspetta sempre colui che ha compiuto una grande impresa. Poi il rumore delle onde fu squarciato da un grido d'uomo, un grido che, nonostante la distanza di oltre mezzo miglio, Pigafetta aveva subito riconosciuto. Era il nostromo calabrese Greco Antonio da Amantea che gridava a squarciagola in italiano: "Tenente, tenente, è giovedì non mercoledì". Una volta saliti a bordo, gli uomini avevano spiegato che secondo i portoghesi dell'isola quel giorno era giovedì dieci luglio e non mercoledì nove, come risultava dal giornale di bordo della Victoria.
Grande fu la sorpresa per tutti, in particolare per Pigafetta che curava il registro da oltre un anno, da quando aveva lasciato la nave ammiraglia ed era trasbordato sulla Victoria. Questo era accaduto il giorno dopo la battaglia di Mactan durante la quale, proprio ancora sulla battigia, morì affogato in qualche metro d'acqua Magellano, appesantito dall'armatura e dal compito generoso di proteggere i suoi uomini che fuggivano disordinatamente gli sciami di nere frecce lanciate dai filippini. Poi la spedizione, persa la guida, si era divisa: la Trinidad, centodieci tonnellate di stazza, la nave ammiraglia ora comandata da Gomez de Espinosa, con l'alberatura semidistrutta aveva salpato le ancore verso l'Isola dei Ladroni per i lavori di riparazione, mentre la Victoria, di appena ottanta tonnellate, affidata al comando di EI Cano, aveva proseguito verso Occidente secondo il piano di Magellano. Da allora, andava riflettendo Pigafetta, aveva curato il giornale di bordo annotandovi scrupolosamente ogni alba e ogni tramonto del Sole.
Il tenente s'era subito precipitato a controllare gli altri due giornali, custoditi sotto chiave a bordo: quello della Santiago che lui stesso aveva salvato su incarico dell'ammiraglio quando, quasi all'inizio del viaggio intorno al mondo, la nave - la più leggera della spedizione con le sue settantacinque tonnellate - era stata abbandonata, per decisione di Magellano, sui ghiacci aguzzi della Terra del Fuoco dopo una grave avaria del timone e quello della Conception, novanta tonnellate, che era volontariamente affondata, su ordine del suo comandante El Cano, per sfuggire alla cattura dei filippini durante la battaglia di Mactan.
Si mise a comparare minuziosamente, giorno per giorno, i tre diari alla ricerca di un errore di datazione inserito nel diario della Victoria dall'ufficiale che l'aveva preceduto nella sua incombenza. Non trovò nessuna discordanza, sicché infine persuase se stesso, il capitano e l'equipaggio che l'errore c'era ma lo avevano commesso, per qualche oscura ragione, gli abitanti dell'isola.
La Victoria riprese il mare verso la Spagna e il viaggio richiese altri due mesi, a causa delle intemperie e dell'ostilità dei portoghesi; nel frattempo l'equipaggio s'era scordato di quel singolare evento, del giorno perduto.
Ma una volta in terra di Spagna, il 5 settembre 1522 secondo il diario di bordo, in quel medesimo porto di San Lucar dal quale erano partiti il 20 settembre 1519, dovettero constatare che secondo il calendario cristiano era il 6 settembre. In accordo con la data fornita dai portoghesi delle Azzorre mancava nuovamente un giorno rispetto al computo effettuato a bordo.
Sulle prime, al momento dell'arrivo, quando ancora l'equipaggio era intento all'ormeggio, Pigafetta si attribuì l'errore anche se non riuscì a ricordare quando e come potesse averlo commesso. Ma poi tutto precipitò in un'altra direzione, imprevista. Accadde che il tenente vicentino riconobbe nel porto gli stendardi della San Antonio, la più grande delle cinque navi della spedizione, ben oltre le centodieci tonnellate. Due anni prima, il 21 ottobre del 1520, si era rifiutata di proseguire il viaggio verso occidente su istigazione del capitano Antonio de Merquisa, che aveva persuaso l'equipaggio dell'impossibilità di trovare il varco verso le Indie, e ribellandosi a Magellano presso il Capo de las Virgines, all'inizio dello stretto che dall'Atlantico conduce a quel nuovo grande mare denominato Pacifico proprio da Magellano, aveva invertito la rotta puntando la prua a Oriente.
Quella mattina stessa Pigafetta era salito a bordo della San Antonio, tornata in Spagna da oltre un anno, e malgrado le difficoltà frapposte dal disertore Merquisa ormai votato, come tosto apprese, alla calunnia di Magellano riuscì a controllare sul diario della nave la data corrispondente all'ammutinamento di Capo de las Virgines. Ancora una volta le date coincidevano. E, d'altro canto, il diario della San Antonio non presentava alcun giorno perduto rispetto al calendario cristiano.
Dacché Pigafetta aveva appurato che tanto i naviganti quanto coloro che erano rimasti a terra avevano computato il tempo senza errore, la questione del giorno perduto divenne un'ossessione. Non ne andava solo del suo onore di ufficiale, bensì della comprensione di una proprietà del tempo che sembrava rivelarsi solo nei lunghi viaggi di andata e ritorno, senza inversione di direzione; proprietà nella quale non ci si era imbattuti prima soltanto perché non si era mai compiuta la circumnavigazione del globo. In altri termini, così ragionava Pigafetta, il computo del tempo effettuato da un marinaio che fa il periplo della Terra verso occidente, da San Lucar a San Lucar, differisce dal computo della moglie del marinaio che nel frattempo è rimasta ad attenderlo a San Lucar.
Pigafetta era tanto catturato da un simile enigma che, ottenuta una speciale autorizzazione da Carlo V messo discretamente a parte del fenomeno, si sottrasse ai festeggiamenti per rinchiudersi nella grande biblioteca di Cordoba, fondata dai Mori: qui, tra l'odore di inchiostri e le ragnatele, portò a termine quella che possiamo considerare la seconda e maggiore sua impresa.
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martedì 29 settembre 2009

Divulgazione scientifica: Misure della storia dell'astronomia, tempo

Il problema della longitudine
Divulgazione scientifica: storia della scienza, astronomia, misure astronomiche, tempo

All'inizio del XIX secolo, la difficoltà di misurare la longitudine in alto mare era stata identificata come un serio ostacolo alla navigazione oceanica. Si trattava di un problema di tipo non teorico, ma pratico; infatti, l'astronomia forniva metodi per calcolare questa coordinata terrestre, il più seguito dei quali era basato sulla determinazione della posizione della Luna rispetto a stelle di posizione nota e poi, mediante apposite 'tavole lunari', sulla deduzione dell'ora solare che in quel momento si aveva in un dato meridiano, per esempio quello di Greenwich; poiché era nota, o comunque facilmente misurabile a partire dall'altezza del Sole sull'orizzonte, l'ora solare locale, la differenza tra questa e la contemporanea 'ora del meridiano' dava la longitudine, considerando che ogni ora corrisponde a 15° di longitudine.
Questa procedura richiedeva misurazioni molto delicate - relative alla posizione della Luna -, nonché calcoli complessi e lunghi, per cui notevoli energie intellettuali furono sempre dedicate a trovare metodi più semplici, atti a essere usati anche da marinai non dotati di un'approfondita cultura astronomica. Così, fu tentata una via attraverso la misurazione di parametri relativi al campo magnetico terrestre.
Nel 1701 Edmond Halley (1656-1742), astronomo, filosofo naturale e navigatore, realizzò una carta che riportava i valori della declinazione magnetica - cioè della variazione del Nord indicato dalla bussola rispetto al vero Nord - su tutto l'Oceano Atlantico. Nel corso di due viaggi egli aveva raccolto i dati della declinazione relativi a circa 150 posizioni e li rappresentò in quella forma di mappa altamente innovativa che segnava le linee - poi dette 'linee isogone' - mediante le quali erano uniti punti che avevano la stessa declinazione e curvavano dolcemente attraverso l'oceano. Successivamente realizzò una seconda mappa, che pretendeva di coprire il mondo intero, basandosi sulle misurazioni compiute da marinai che avevano viaggiato nell'Oceano Pacifico e nell'Oceano Indiano più di quanto avesse fatto lui stesso. Halley sosteneva che, individuando sulla mappa la linea corrispondente alla declinazione che essi misuravano nel punto in cui si trovavano, i navigatori avrebbero potuto determinare la loro posizione in qualunque oceano navigassero; sfortunatamente, queste carte si rivelarono inesatte e difficili da riprodurre in un formato pratico per i marinai. Metodi per una soluzione 'magnetica' del problema della longitudine continuarono a essere presentati anche dopo l'istituzione nel 1714 della Commissione per la longitudine, che ricevette dal Parlamento inglese l'autorizzazione a elargire fino a 20.000 sterline per un'eventuale soluzione del problema. La lotta per assicurarsi il premio spinse gli sperimentatori a lavorare al perfezionamento sia delle normali bussole di declinazione sia di quelle d'inclinazione, introducendo innovazioni che non sempre furono facili da mettere in pratica durante la navigazione.
Alla fine, com'è noto, il 'problema della longitudine' fu risolto dal costruttore inglese di orologi John Harrison (1693-1776), il quale vinse il concorso (ma non l'intero premio in denaro) per aver realizzato cronometri capaci di conservare l'ora locale di un porto di partenza con uno scarto di pochi minuti in qualche mese di navigazione e che consentivano di ricavare la longitudine in mare dalla loro indicazione nell'istante del mezzogiorno locale, desumibile semplicemente - come accennato - dall'osservazione della massima altezza del Sole sull'orizzonte. Tuttavia, a causa della scarsissima quantità di tali cronometri allora disponibile, per gran parte del XVIII sec. le soluzioni magnetica e astronomica sembrarono le più plausibili per risolvere il problema.
Durante il suo primo viaggio, rilevando i contorni costieri della Nuova Zelanda nel 1769-1770, il capitano James Cook (1728-1779) usò le osservazioni lunari e il calcolo del tempo di un transito di Mercurio per determinare la longitudine, ma durante il secondo viaggio, compiuto tra il 1772 e il 1775, egli optò per uno dei cronometri di Harrison. Affinché si potesse far fronte al problema della longitudine in maniera più generale occorreva una certa distribuzione del lavoro: gli artigiani dovevano essere formati in modo tale da poter riprodurre fedelmente i cronometri di Harrison, mentre i marinai dovevano essere istruiti sulla loro manutenzione. Si rivelò più facile risolvere il problema organizzando la produzione di un congegno meccanico, piuttosto che rivolgersi a mezzi alternativi e istruire i navigatori su come servirsi della misurazione delle distanze lunari per ricavare la posizione.
Divulgazione scientifica: storia della scienza, astronomia, misure astronomiche

sabato 26 settembre 2009

Divulgazione Scientifica: Storia della Scienza, Storia dell'astronomia, Tempo

La musa impara a scrivere


Divulgazione Scientifica: Storia della Scienza, Storia dell'astronomia, tempo

La scrittura viene dai Sumeri. La patria della scrittura cuneiforme si trova in Mesopotamia, nei bacini dei fiumi Tigri ed Eufrate, proprio dove oggi si combatte una sanguinosa guerra di conquista. Il termine "cuneiforme" significa letteralmente "a forma di cuneo" e deve la propria origine all'aspetto a forma di cuneo dei piccoli tratti che caratterizzano i segni della scrittura mesopotamica. Le origini della scrittura sumera sono da ricercare nelle esigenze sorte nell'ambito dell'economia e dell'amministrazione pubblica. Con la crescita della produttività del paese, dovuta al controllo dello stato sui sistemi di canalizzazione e irrigazione, la produzione agricola in eccesso fu raccolta nei depositi e nei granai cittadini, e questo rese necessaria l'istituzione di una contabilità sia delle merci che provenivano dalle città sia dei prodotti manufatti che lasciavano le città per la campagna. Inizialmente la scrittura è logo - grafica con cui è semplice dare espressione a termini concreti, come "pecora" per mezzo dell'immagine della pecora, ma questo modo della raffigurazione deve ben presto evolversi in un metodo in cui le immagini possano esprimere non solo gli oggetti che essi rappresentano ma anche le parole a cui questi possono essere in un secondo momento associati. Così l'immagine del sole può rappresentare secondariamente le parole "luminoso, bianco" e in seguito anche "giorno".

Una logografia di questo tipo ha l'inconveniente di non poter esprimere molte parti del discorso e forme grammaticali, molto più seri sono i limiti del sistema in relazione alla scrittura dei nomi propri. Fu proprio la necessità di una rappresentazione adeguata dei nomi propri a portare infine allo sviluppo della fonetizzazione, il cui principio consiste nell'associazione di parole di difficile scrittura con segni che assomiglino a queste parole nel suono e che siano facili da disegnare.


Il nome della scrittura geroglifica degli Egizi deriva dal greco ieroglyphica grammata e deve la sua origine alla credenza che questo tipo di scrittura fosse usato principalmente dagli Egizi per fini sacri e su pietra (ieros significa "sacro" e glyphein significa "incidere"). È un metodo di scrittura descrittivo - figurativo, che consiste nel raffigurare un evento trascurando completamente, come nell'arte, il proposito fondamentale della scrittura in senso proprio che è quello di riprodurre il flusso della lingua parlata. Per tutta la sua storia l'egiziano fu una lingua logo - sillabica. La forma di scrittura geroglifica, usata principalmente per essere esposta pubblicamente, non era la scrittura della vita pratica quotidiana. Per questo scopo gli Egizi svilupparono due forme di scritture corsive, dapprima la ieratica e poi la demotica. Una volta introdotto, il principio di fonetizzazione si diffuse rapidamente. Con esso si aprirono orizzonti mai esplorati all'espressione di tutte le forme linguistiche, non importa quanto astratte esse fossero, per mezzo di simboli scritti. Nei geroglifici la cosa è rappresentata con un legame forte tra simbolo e referente, e l'alfabeto spezzerà questo rapporto.
Nella dicotomia oralità - scrittura la verità risiede nell'essere in presenza. Socrate, così come Gesù, non ha scritto i suoi insegnamenti, sono stati altri a trascriverli. Secondo la tradizione ebraica la Torah orale è anteriore alla Torah scritta, della quale è l'interpretazione e Machloqet significa discussione polemica tra due maestri a proposito di un argomento. La discussione è possibile in quanto la legge è "Halakah" ossia cammino, passo. La discussione può nascere in quanto la legge non è un prodotto ma una produzione. Gli esami universitari, gli esperimenti scientifici e i processi giudiziari si effettuano in presenza e oralmente. Inoltre la comunicazione orale non è fatta dal solo messaggio linguistico e dal suo contenuto razionale, ma dai tratti sovrasegmentali, cioè la prossemica e la cinesica.
Secondo i greci "essere" significa "essere in presenza", per esempio per contare qualcosa è necessario essere in presenza del fenomeno osservato. In un ontologia così concepita il concetto di tempo non include il presente ma il passato (che è ricordo e memoria) e il futuro (che è l'incerto). Questa concezione ci permette di non restare imbrigliati nel paradosso di Agostino e Heidegger secondo cui il presente non esiste perché divide due cose che non esistono: il passato che non c'è più e il futuro che non c'è ancora. Platone così scrisse nel Timeo : " Ma le danze di questi astri e i loro incontri, e i ritorni e gli avvicinamenti dei circoli, e quali dèi nei congiungimenti siano vicini fra loro e quanti opposti, e dietro a quali, coprendosi a vicenda, e in quali tempi si nascondano a noi, e di nuovo apparendo mandino terrori e segni delle cose future a quanti non sanno questi calcoli, tutte queste cose sarebbe vana fatica spiegarle senza avere avanti agli occhi le loro immagini. " (40 d).
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