Divulgazione scientifica, storia della scienza, misure scientifiche, tempo
La seconda e maggiore impresa di Pigafetta
Antonio si diede un piano di lavoro lungo due direttrici. Da una parte redigere, su richiesta di Carlo V, a partire dai quattro diari di bordo nonché dalle sue note, un resoconto completo e dettagliato della spedizione. Si trattava non solo di aderire alla richiesta del sovrano ma anche di salvare la gloria del portoghese Magellano a fronte di una sorta di usurpazione che tentava lo spagnolo EI Cano o delle calunnie che propalava l'ammutinato Merquista. Il vicentino sentiva questo come un suo preciso dovere, dal momento che era stato proprio Carlo V, su raccomandazione del nunzio apostolico in Spagna il cardinale F. Chierici, vicentino anche lui, a designare Pigafetta tra gli ufficiali dell'equipaggio di Magellano; dopodiché s'era accattivata la simpatia dell'ammiraglio ed era divenuto segretario nonché il consigliere ascoltato. Non era tanto riconoscenza che Pigafetta sentiva per Magellano, quanto ammirazione, nel senso stretto della parola, per l'opera sua che il vicentino giudicava meravigliosa, ancor più di quella che Dante attribuisce a Ulisse.
L'altra direttrice di lavoro, lo sforzo di capire quell'anomalia del tempo, era più complessa e sfuggente; malgrado ciò essa era addirittura più urgente perché, sempre su richiesta di Carlo, doveva produrre un risultato in capo a qualche settimana, in occasione del grande simposio in onore della spedizione che l'imperatore aveva indetto nel palazzo di Valladolid per l'8 dicembre, il giorno di Maria, alla presenza dei grandi e dei sapienti di Spagna. Carlo desiderava che fosse il tenente Pigafetta ad illustrare l'enigma del giorno perduto; e a scioglierlo agli occhi del mondo cristiano.
Antonio aveva trentadue anni; da dieci era entrato nell'ordine dei Cavalieri di Rodi e il lavoro con il libro, il sestante o la spada certo non lo spaventava. Tuttavia si smarriva davanti al compito di risolvere quel rompicapo che, aveva motivo di credere, non riguardava il computo ma ciò che veniva computato, ossia il tempo in quanto tempo perduto.
Angosciato dalla sensazione di essersi cacciato da solo in una trappola, smise dopo qualche giorno di occuparsi del rendiconto del viaggio di Magellano intorno al mondo per dedicarsi interamente alla questione del tempo perduto.
Sprofondò nei libri stampati e subito dopo nei manoscritti ingombranti e polverosi. Cominciò con un'edizione completa della Summa di Tommaso d'Aquino sembrandogli quella la lettura più agevole, per via della familiarità che aveva acquisito con l'autore grazie ai vari breviari della Summa dei quali s'era occupato nel corso dei suoi studi giovanili.
Dopo due settimane di lettura commentata, era più o meno al punto di partenza dal momento che l'intimo legame che l'Aquinate istituiva tra Dio e il tempo comportava che ogni anomalia di quest'ultimo si risolvesse in un difetto di Dio e questo, il vicentino lo sapeva bene, non era solo eresia, era addirittura blasfemia.
Antonio si risolse allora a ricorrere all'altra grande tradizione teologica, a quella che aveva dominato l'Europa cristiana prima dell'arrivo dei Mori, tradizione che si collegava alla cultura greca antica tramite gli insegnamenti del filosofo pagano Plotino. II compito era qui facilitato dall'esistenza di numerose traduzioni latine dei dialoghi platonici, traduzioni che avevano dato luogo a libri stampati in numerose città italiane, segnatamente Firenze, dov'era in corso una rinascita della civiltà greca classica, grazie a migliaia di profughi, spesso eruditi come Gemisto, profughi che, fuggendo l'invasione ottomana, avevano trovato rifugio nella penisola.
Pigafetta studiò e ristudiò le Enneadi di Plotino. In particolare trascrisse e commentò la Terza enneade, dove la questione del tempo si apre con una critica della posizione aristotelica che identifica il tempo con la sua misura e si conclude con una definizione del tempo come movimento dell'anima. Gli sembrò che negli scritti di Plotino risuonasse la parola splendida di Platone. Si mise a leggere Platone tutto d'un fiato, per una decina di giorni. Aveva maturato un giudizio secondo il quale gli unici dialoghi, pertinenti il suo problema, fossero il Timeo , il Teeteto e il Parmenide . Quest'ultimo non fu di grande aiuto perché, dopo aver introdotta la questione, la lasciava irrisolta; quanto ai primi due che collegavano strettamente il tempo all'universo ponevano Pigafetta dinanzi allo stesso tipo di immane ostacolo concettuale in cui s'era imbattuto nella lettura della Summa .
Scoraggiato, il vicentino smise di frequentare la biblioteca e si recò a Siviglia dal nunzio apostolico in Spagna, suo concittadino e amico, per un consiglio. L'uomo di Chiesa lo sollecitò a perseverare nell'impresa in modo da non deludere l'imperatore; gli suggerì di leggere Agostino, anzi, lo rimproverò per aver dato una sorta di preferenza alla filosofia pagana; infine gli propose di incontrare l'astronomo Ruy Faleiro che risiedeva proprio a Cordoba ed era certo in grado di aiutarlo. Per la verità il nunzio non omise di mettere in guardia il tenente sulle opinioni e la personalità dell'astronomo che, secondo le affermazioni della diplomazia pontificia, si nascondeva sotto falso nome: si trattava di un certo Gian Battista Amici, italiano da Cosenza, che aveva studiato astronomia a Padova e diritto canonico a Ferrara e che avendo ucciso in un duello un marito, potente quanto distratto, per amore della giovane moglie, si era rifugiato ormai da più di dieci anni in Andalusia per fuggire all'accusa di adulterio e omicidio. Quel che sembrava preoccupare di più il nunzio, suddito della serenissima per nascita e uomo di mondo, non era quel celarsi sotto le vesti di Faleiro o la condotta opinabile del cosentino, bensì il fatto che quest'ultimo fosse l'autore di un libro di astronomia stampato a Venezia nel 1518 dal titolo De Motibus Corporum iuxta Principia Peripatetica , testo che il nunzio aveva letto e che anzi aveva proprio lì, alla nunziatura, sottomano, ma sul quale pendeva da alcuni mesi un procedimento del Santo Uffizio per eresia. Ad ogni buon conto il nunzio aveva prestato a Pigafetta il libro di Amici raccomandandosi di non permettere la lettura a nessun altro, secondo le disposizioni in uso nel caso di scritti sottoposti a procedimento, ma insistette altresì perché il vicentino lo studiasse prima di incontrare l'astronomo, in modo da essere preparato a riconoscere le fallacie di eventuali ragionamenti ereticali.
Il giorno stesso dell'incontro con il nunzio, Pigafetta riuscì a trovare un'edizione italiana delle Confessioni di Agostino, presso una piccola e lurida tipografia, gestita da un genovese, che si trovava nella medesima piazza dove, solenne e mostruosa, si ergeva la Casa de la Contrataciòn, emblema dell'Impero sulle lontane Americhe. Lesse tutta la notte, prima Agostino d'Ippona e poi Gian Battista Amici da Cosenza; la mattina successiva, sulla carrozza che lo riportava a Cordoba, concluse che in Agostino c'erano due concetti di tempo: uno di origine platonica, che lega il tempo all'universo e quindi al Demiurgo o, se si vuole, a Dio; l'altro, più intrigante e sfuggente, che lo fa risalire ai moti di coscienza, cioè all'introspezione o, se si vuole, all'anima. E tuttavia né l'uno né l'altro facevano al caso suo, il primo per le considerazioni esposte, il secondo perché il tempo che era in questione per Pigafetta non era quello soggettivo dell'introspezione individuale, ma quello obiettivo stabilito dalla misura.
Quanto ad Amici trovò che la sua teoria delle orbite celesti somigliava in più punti a quella illustrata da Fracastoro da Verona nel libro Homocentrica , stampato a Venezia nel 1518, libro che Pigafetta conosceva bene. Entrambi gli astronomi gettavano alle ortiche gli eccentrici e gli epicicli di Tolomeo, per tornare alle sfere concentriche di Eudosso e Aristotele. Ma la descrizione di Amici non sempre risultava più semplice di quella di Fracastoro, che, a vero dire, semplice proprio non era. La differenza più significativa fra il cielo di Fracastoro e quello di Amici gli sembrò consistere nel minor numero di sfere adoperate dal cosentino rispetto al veronese e, soprattutto, in quel movimento lento dell'ottava sfera che Amici chiamava delicatamente titubatio e che invece Fracastoro ignorava del tutto. Alla fine gli parve che il libro del cosentino fosse sì un po' pedante, ma di certo per nulla fallace e meno che mai eretico. Una volta tornato a Cordoba il vicentino cercò un abboccamento con Faleiro alias Amici; in capo a due giorni ottenne l'incontro.
La casa dell'astronomo sorgeva ben fuori città, sulla prima collina lungo al strada che porta a Toledo. Era una specie di torre militare rialzata, che serviva all'astronomo come osservatorio. Da lassù Cordoba appariva alta e sola, perduta tra le rupi. L'astronomo viveva solo o meglio con un cane, un possente pastore dei Pirenei ancora cucciolo, mantello fulvo, occhi marroni come castagne, che lo seguiva tutto il tempo.
Era un vecchio minuto, completamente calvo, dal viso olivastro, i denti interi e bianchi, gli occhi chiari e un po' folli; se ne stava avvolto dalla testa ai piedi in un pastrano di velluto rosso senza colletto, il quale lasciava comunque intravedere il petto villoso e bianco; si intuiva che, un tempo, era stato bello. Ascoltò in silenzio il racconto dei fatti e le osservazioni di Pigafetta senza interromperlo per oltre un'ora. Solo di tanto in tanto tradiva la sua emozione scoppiando in brevi risate irrefrenabili, che gli contraevano l'intero volto. Dapprincipio la cosa aveva non poco imbarazzato Pigafetta, giacché le risate si innescavano senza alcuna connessione col racconto; poi il vicentino si tranquillizzò, ricordando la descrizione che Teofrasto aveva dato del carattere isterico, nel quale la propensione ad accompagnare con un segno di piacere l'atto del comprendere nel suo farsi provoca la coazione a ridere d'ogni risultato conseguito dall'intelligenza.
Dopo che Pigafetta ebbe terminato di esporre i suoi ragionamenti, i due uomini e il cane rimasero in silenzio, a lungo, nella grande sala della torre, come a riflettere su quell'evento immane e leggero al tempo stesso, un evento che in qualche maniera li legava tra di loro e con l'universo. Poi l'astronomo, in un castigliano ricco di inflessioni italiane, affermò che l'unico testo che potesse essere utile, per il compito che Pigafetta s'era assunto, era il IV Libro della Fisica di Aristotele, posseduto dalla grande biblioteca di Cordoba, sia pure nella forma di manoscritto arabo. Avvertì quindi che in quanto stava per dire non c'era lo scioglimento dell'enigma proposto ma semmai una sua duplicazione. Egli intuiva tuttavia, senza riuscire ad argomentare, come il secondo enigma fosse in grado di illuminare il primo.
Dopo tale premessa l'astronomo dichiarò che, a suo parere, se la spedizione di Magellano fosse stata armata da Manuel re di Portogallo anziché da Carlo re di Spagna, il giro del mondo si sarebbe svolto con la prua verso Oriente: al ritorno in Europa i sopravvissuti avrebbero constatato non già di aver perso un giorno, bensì di averlo guadagnato. Così disse l'astronomo e su questa questione si tacque per il resto dell'incontro, malgrado il tentativo del vicentino, al quale quelle parola erano risultate piuttosto oscure, di avere chiarimenti.
Nei giorni successivi Pigafetta, che pur parlava e scriveva in arabo, iniziò la lettura della Fisica facendosi aiutare da un traduttore invitato da Siviglia a stretto giro di carrozza, ancora una volta grazie alla generosità del nunzio. Il traduttore era un ebreo convertito, originario del Marocco, che conosceva perfettamente l'arabo classico e lo aveva insegnato ai gesuiti della Casa di Salamanca, ma poi, sospettato dai suoi stessi allievi di essere un marrano, aveva perso il posto ed era a malapena riuscito a sottrarsi, almeno per il momento, alla Santa Inquisizione unicamente in virtù della protezione di cui godeva presso la nunziatura in Spagna.
La prosa di Aristotele, lungi dall'essere sciatta, non aveva tuttavia le armonie di quella platonica; possedeva piuttosto lo stile che viene dalla sobrietà, dall'abitudine a scrivere note essenziali, ossia redatte col numero minimo di parole, brevi e complete come appunti da sviluppare poi nella conversazione orale.
Pigafetta riassumeva su un foglio, in una sua personalissima lingua veneta intrisa di francesismi, quanto l'ebreo veniva leggendo ad alta voce, ora in spagnolo ora direttamente in arabo, secondo richiesta. Gli riusciva difficile concentrarsi sul testo per molte ore. Mancava ormai solo una settimana all'appuntamento con l'imperatore nel palazzo di Valladolid e non v'era alcun progresso né nella redazione del resoconto del viaggio né, e questo era più grave, nella soluzione dell'enigma. Aveva studiato per tre volte, proposizione per proposizione, il quarto Libro e si accingeva ora a chiederne all'ebreo la rilettura integrale.
Ripensava spesso, non badando più alla voce del traduttore, alle affermazioni sibilline di Faleiro. La prima parte del discorso dell'astronomo, quella che immagina verso Oriente un viaggio intorno al mondo organizzato da Manuel I re del Portogallo, stava solo a ricordare l'esistenza di un trattato fra Spagna e Portogallo, il trattato di Tordesillas del 1494, che assegnava - sulla scorta di una Bolla Pontificia emanata nel 1493 da papa Alessandro VI il Borgia - alla Spagna tutte le nuove terre non cristiane a partire da duecentosettanta miglia ad ovest del meridiano dell'arcipelago delle Azzorre e al Portogallo tutte quelle ad est. Di certo, pensava Antonio, se i portoghesi decidessero di circumnavigare il globo andrebbero controsole; ma perché avrebbero dovuto al ritorno, computando le albe e i tramonti da bordo, ritrovarsi con due giorni in più rispetto agli spagnoli che avevano navigato nella direzione del Sole, questo, ecco, non solo non era chiaro ma gli sembrava più che mai oscuro.
L'ebreo aveva ripreso per la quarta volta a tradurre ad alta voce il quarto libro della Fisica . Le frasi asciutte e turgide di significati riempivano la stanzetta, fredda e disadorna, messa a disposizione di Pigafetta dal sovraintendente la Grande Biblioteca di Cordoba. «Noi percepiamo il tempo e il movimento insieme: perché anche quando siamo nel buio, se il nostro corpo è in quiete, se un movimento, un pensiero ha luogo nella nostra testa noi riteniamo che sia trascorso del tempo; non solo questo, ma viceversa quando pensiamo che sia trascorso del tempo, vuol dire che abbiamo percepito qualche movimento. Così il tempo deve essere o il movimento o qualcosa che appartiene al movimento ... Noi apprendiamo il tempo solo quando percepiamo il movimento, e lo marchiamo col "prima" e col "dopo"; e solo quando percepiamo il "prima" e il "dopo" nel movimento diciamo che è trascorso del tempo».
«Perché il tempo è proprio questo: la misura del movimento secondo il "prima" e il "dopo"». Pigafetta aveva appena finito di trascrivere, per la quarta volta, questa definizione aristotelica che d'improvviso la frase oscura di Faleiro divenne solare. Pensò dapprima a una caravella spagnola che potesse viaggiare per terra e per mare muovendo lungo un parallelo da San Lucar a San Lucar verso Occidente, insieme al Sole e alla sua stessa velocità: i marinai a bordo osservando il Sole sempre alla medesima altezza sull'orizzonte dovrebbero concludere che il tempo non scorre, visto che il Sole è fermo. Poi, stupito lui stesso dalla tagliente evidenza della considerazione, si figurò una caravella portoghese che compia il periplo navigando verso Oriente lungo un parallelo da Oporto a Oporto e immaginò altresì che la velocità della caravella fosse sempre uguale ma di direzione contraria a quella del Sole: I marinai avrebbero constatato al ritorno che per due volte il Sole era passato, culminando a mezzodì, sopra le loro teste.
Una grande calma lo prese, come se avesse poggiato i piedi sopra una verità cosmica; o, forse, come se d'improvviso si fosse liberato in una sola volta di mille e un pregiudizio. Congedato e ringraziato l'ebreo si mise a preparare l'incontro con l'imperatore e i sapienti di Spagna. La traccia del discorso che avrebbe tenuto si delineava netta. Il tempo come misura del movimento permetteva di sciogliere l'enigma del giorno perduto senza dover scomodare Dio o l'universo. I sopravvissuti della spedizione di Magellano avevano computato i giorni rispetto al loro movimento di circumnavigazione; poiché avevano compiuto un giro del mondo nella stessa direzione del Sole, quest'ultimo era passato sulle loro teste una volta in meno rispetto a coloro che erano rimasti in Spagna, senza muoversi. In fondo, a ben vedere, il giorno perduto non era una misteriosa proprietà del tempo, ma una qualità dello spazio terrestre, un evidente segno della simmetria sferica della Terra e della rotazione del Sole attorno alla Terra.
Quest'ultima considerazione suggerì a Pigafetta un modo geometrico, e particolarmente intuitivo, di ricostruire il fenomeno del giorno perduto per i convitati di Carlo. In effetti, pensò il vicentino, si tratta di comporre due rotazioni, quella del Sole e quella della caravella, facendo la differenza fra le due nel caso della circumnavigazione a Occidente e la somma per quella a Oriente. Il fenomeno può quindi essere rappresentato da un uomo che ruoti su se stesso, in senso orario per esempio, e al contempo percorra il bordo di un grande tavolo circolare, una volta in senso orario, l'altra in senso antiorario.
Nel palazzo reale di Valladolid, la sera dell'8 dicembre 1522, giorno di Maria, v'era nella sala da pranzo addobbata con arazzi sfarzosi un grande tavolo circolare d'ebano, con il bordo di argento brunito, il tavolo del convito. Quella sera Pigafetta per due volte ruotò su se stesso mentre girava intorno al tavolo, una volta in modo levogiro, l'altra destrogiro.
Così Pigafetta portò a termine la sua seconda e più grande impresa, con grande soddisfazione del re e molta frustrazione dei sapienti di Spagna.
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